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L’Aglianico tra leggenda e nobiltà

L’Aglianico tra leggenda e nobiltà

È una di quelle storie il cui confine tra storia e realtà è una strisciolina quasi invisibile.

In mancanza di dati storici certi è preferibile muoversi con estrema cautela.

Il maggior poeta del periodo augusteo, dopo Virgilio Marone, nelle Odi scrive “Nacqui qui l’8 dicembre del 65 a.C. presso Venosa sul Vulture, al confine con la Lucania”, all’epoca Venosa faceva parte dell’Apulia. Quinto Orazio Flacco è stato il maggior cantore del vino di tutta la Latinità. Uno dei tanti motti tramandatici dal poeta venosino è il noto carpe diem, cogli l’attimo, ossia impara a godere l’attimo della libertà, della bellezza, del piacere senza lasciarti assillare dalle preoccupazioni del domani, e chissà se il poeta non abbia tratto ispirazione da una aromatica libagione di Aglianico.

La leggenda narra che il grappolo medio-piccolo, cilindrico, spesso alato sia stato esportato dai greci intorno al VII e VI secolo a.C. nella colonia ellenica di Cuma, situata a nord di Pozzuoli nel napoletano, e da qui sia pervenuto alle falde del Vulture.

Il Vulture ed il Lago di Monticchio

Vi è poi un’altra leggenda che suggerisce che sia stato trasportato da un’altra colonia greca Elea, divenuta Velia con i romani, ubicata nel Cilento e da qui il nome dato al vino Hellenico che coincide con il nome degli abitanti della vecchia Grecia.

Vi è qualche fantasioso narratore che vorrebbe essere l’Aglianico “il rosso vino di miele” utilizzato da Ulisse per ubriacare Polifemo nella Terra dei Ciclopi, piccolo arcipelago che si trova di fronte alla spiaggia di Aci Trezza nel territorio comunale di Aci Castello situato nell’area metropolitana catanese.

I romani chiamarono il vino prodotto nell’area del Vulture l’Ellenico che veniva utilizzato anche per rafforzare la struttura del loro nettare preferito, il Falerno.

Con la caduta dell’impero romano la Penisola si sfalda e diventa terra di conquista. Del Meridione si impossessano i Bizantini, i Longobardi, i Normanni, gli Angioini, gli Aragonesi e gli Spagnoli. Sotto il dominio di costoro il nome di Aglianico diventa definitivo, per gli iberici la doppia “ll” si pronuncia “gl”, e per evitare la cacofonia la “e” viene trasformata in “a”, onde diventa Aglianico.

La prima citazione compare nel Cinquecento.

Nel 1559 Sante Lancerio, cantiniere di Papa Paolo III, in una lettera inviata al cardinal Guido Ascanio Sforza si diletta nella descrizione dei vini italici e sull’Aglianico così si riporta: “Il vino Aglianico viene dal Regno di Napoli, dove si fa buon Greco… Tali vini sono anco carichi di colore, e ne sono delli discarichi molto migliori e più pastosi ….. di tali vini S. S. bevevo molto volentieri e dicevali bevanda delli vecchi, rispetto alla pienezza”.

Andrea Bacci, il medico di Paolo III, nella Storia naturale dei vini spende due parole in più: “Viene preparato con uve piuttosto secche, reso vigoroso dal rovere e conservato in ottimi vasi. Risulta pertanto profumato e sapido: gradevole al gusto, piacevolissimo e stabile, di elevato potere nutritivo, corroborante per lo stomaco e le membra più che aperitivo… tratto da uve non tanto nere, piene di succo rubicondo e d’una sostanza mediocremente grassa, densa, pingue; e alcolico quando le vendemmie corrono asciutte”.

Le cantine il più delle volte erano collocate nelle grotte e da un inventario del 1589 a Melfi ne furono registrate 110, a Barile, a Rionero, a Maschito e a Ripacandida le cantine erano quasi tutte nelle grotte e negli ipogei naturali o scavati con modesti interventi.

Nel 1629 Prospero Rendella nella sua descrizione sui vini del Regno di Napoli accenna al “Melfiaco (di Melfi)” come un vino di fragranza, dal color dorato e di una dolcezza lodevole, per nulla inferiore ai vini di Cipro e di Creta.

Dal Settecento la leggenda principia a trasformarsi in nobiltà.

Una descrizione analitica la esegue Giuseppe Acerri nel suo Delle viti italiane, o sia, materiali per servire alla classificazione, monografia e sinonimia, preceduta dal tentativo di classificazione geoponica delle viti, edito a Milano nel 1825 da Giovanni Silvestri.

Sul finire dell’Ottocento la monografia di Bianchi sui vini della Basilicata individua l’area del Vulture come migliore contrada per la coltivazione della vite per la presenza del vulcano spento e di due suggestivi laghi di origine vulcanica.

In occasione dell’Esposizione Universale tenutasi a Milano nel 1906 vengono presentati dieci vini del Vulture e riscuotono un successo straordinario.

Dal 1901 al 1909 il docente universitario in Viticoltura Pierre Viala ed il viticoltore Victor Vermorel scrivono sette volumi che diventano un monumentale trattato di ampelografia internazionale, Ampélographie-Traité général de viticulture è ancora oggi un punto di riferimento per studiosi e viticoltori. In esso sono riportati i principali vitigni del globo ed un certo risalto lo dedicano all’Aglianico, il vitigno del Vulture ottiene, in tale maniera, la dovuta certificazione per valicare i confini nazionali ed entrare a pieno titolo tra le eccellenze planetarie delle bacche nere.

Nel XX secolo il nobile nettare del Vulture entra a pieno titolo nell’élite mondiale del vino rosso, le sue etichette riscuotono consensi riconoscimenti in Italia e ovunque.

La DOC Aglianico del Vulture è stata riconosciuta con Decreto del Presidente della Repubblica del 18 febbraio 1971 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 129 del 22 maggio 1971.

La zona di produzione comprende l’intero territorio dei comuni di Rionero in Vulture, Barile, Rapolla, Ripacandida, Ginestra, Maschito, Forenza, Acerenza, Melfi, Atella, Venosa, Lavello, Palazzo San Gervasio, Banzi, Genzano di Lucania, escluse le tre isole amministrative di Sant’Ilario, Riparossa e Macchia del comune di Atella. Su oltre 1.500 ettari di superficie si producono circa due milioni e mezzo di bottiglie che riscuotono apprezzamenti nei cinque continenti

Se il Barolo è riconosciuto come il vino dei re ed il re dei vini, in tanti sostengono che l’Aglianico è il Barolo del Sud ed il complimento è appropriato e attinente alla realtà.